SPEEDBOAT SUL TONLE SAP

SPEEDBOAT SUL TONLE SAP

Esattamente un anno fa ho rischiato di morire nel Tonle Sap, il lago cambogiano.

Sono le nove quando la spead boat raggiunge lo slargo del Tonle Sap e solo lì parte davvero.

In fretta la velocità aumenta, ed è impressionante. Le ultime barche di pescatori spariscono. Solo Tonle Sap; Tonle Sap che è un enorme lago d’acqua dolce, di colore marrone. L’acqua schizza alta dalla prua, in baffi di metri ed inizia a bagnarci. La motonave è piena di geni come me che hanno pensato di fare prima e vedere un bel paesaggio, piuttosto che andare in autobus fino a Phnom Penh.

Soltanto sul tetto siamo in trenta. Ridiamo, all’inizio, io mi preoccupo di farlo a bocca chiusa, e questo ci fa ridere ancora di più. Cerchiamo di crearci un riparo con gli zaini, facendo finta di nulla.

Io ho quello che uso quando mi imbarco o vado a fare giri, dentro ho tutto: dal mio lap top MIA alla V2 alle carte di credito, cellulare, passaporto, soldi. La Speed Boat è sempre più veloce, mentre la superficie del lago si fa più mossa e, al largo, ci sono onde. I baffi sono sempre più alti e la cubatura di acqua che ci arriva addosso aumenta di pari passo.

Il sole è sparito, siamo zuppi. Tutto è marrone, il cielo grigio, coperto, castigato.

Siamo storditi dal fracasso del motore, dall’acqua da cui non c’è riparo di sorta. Non si ride più, ma ci cominciamo a guardare l’un l’altro… “è pericoloso secondo te?” dicono gli occhi; i miei rispondono: “si, cretino, è terribilmente pericoloso”. Ma accenniamo soltanto cordiali sorrisi occidentali.

Qualcuno grida, e la gola raschia: “Adventurous Holidays in Cambodia eh?” e poi ci rannicchiamo come gamberetti sgusciati e bagnati sulle lamiere sdrucciolevoli.

In un trick che mi porti lontano dai pensieri negativi, la mia mente pensa per contrappasso a tutte le cose che vanno bene, tipo : “sono riuscita a mangiare ben due frittelle dolci prima partire, questo è un gran culo, visto che il viaggio durerà altre 5 ore” e poi “ho l’anticolerica scaduta, è vero, ma da poco, quindi sarò forse ancora coperta, per l’acqua che ho bevuto….” e ancora “ho la testa all’asciutto, almeno quella. Passerà vedrai!”.
E non passa. Peggiora. Eravamo fradici e la barca si era trasformata in un missile a rimbalzo ormai sul lago del Tonle Sap. Entrare in cabina, da li in quelle condizioni, era impensabile. C’era solo uno stretto passaggio scivoloso a bordo barca, e tu non puoi saltarci semplicemente sopra mentre la barca va a chissà quanto.

Davanti a me gente che, se percepisce il pericolo della situazione, lo nasconde benissimo.

Mi chiedo spesso che cosa faccia perdere il senso del pericolo agli occidentali quando sono in viaggio in paesi poveri. Continuano tutti a comportarsi come se si stesse trattando di una crociera, mentre a un italiano sarebbero venuti in mente parallelismi come : scafisti/migranti/clandestini/MORTE.

L’acqua putrida, ci aveva oramai del tutto inzuppati come savoiardi, il tetto della barca bagnato era diventato scivoloso, il freddo faceva rabbrividire e iniziavamo a sguillare via, risucchiati vorticosamente per aria. Una coppia che avevo visto all’alba salire sul mio furgone a Siem Reap ascoltava addirittura musica dall’Iphone, dividendosi le cuffie rosse, quelle di moda.

Si stringevano l’un l’altro come fossero sul Titanic, a facce madide e aggrottate ma romanticamente, decisi ad ignorare la realtà, in quella visione che a me pareva un funestissimo presagio.

Cominciavo a tremare di freddo mentre perdevo il controllo di una gamba che si congelava. In una situazione del genere cosa fai? Cerchi di entrare nella barca.
L’ho proposto a due tipi italiani che per sorte mi erano capitati vicino. Uno di loro ha capito la sensatezza della mia proposta, ma ne vedeva l’azzardo. Nicchiava. L’altro genio mi ha risposto:” Perché non costruiamo un fortino con le valigie e ci ripariamo?” . Di fronte a una tale insensatezza ( avevamo già usato cosi le valigie, noi altri, e nel migliore dei modi possibili, e ci stavano cadendo addosso ) e dopo un primo momento di scesa, a queste parole, ho capito, non avrei trovato terreno fertile da quelle parti, e ho iniziato l’impresa in solitaria. Addio ragazzi, non so che fine abbiate fatto, comunque ciao eh.
Strisciando sul sedere, zaino pesantissimo in schiena, sono passata più indietro verso la coda del velivolo (è il caso di chiamarlo cosi perché in quello si era trasformato ), dove stavano due ragazze coperte dalla testa ai piedi come ninja. Un velocissimo incrocio di sguardi e ho capito che anche loro stavano per lanciarsi nello stesso progetto. Faccio cenno di andare insieme e scendere a poppa, dove c’è il motore e il bagagliaio, ed è anche più veloce ripararsi, se il resto dell’impresa risultasse impraticabile. La seconda parte del progetto, infatti, era percorrere la scivolosa passerella senza protezioni che correva attorno alla motonave, e raggiungere il cabinato. Era fattibile, alcuni c’erano già riusciti, ma lo avevano fatto prima, quando la velocità era minore e loro stessi meno sguiscidi. Ci siamo comunicate il piano a gesti, come tre coglione ma con stile. Ci voleva del gran sangue freddo. Le amiche sono partite con convinzione davanti a me, ed io incoraggiata, sono andata loro dietro. L’unica strada era passare tra le ciminiere, da cui il fumo nero e denso era sparato fuori in quantità infernale. Ci acceca subito. La superficie del tetto, sotto il mio sedere, si fa rovente, e cosi mi spingo facendo leva su questi camini.

Mi ustiono entrambi i palmi per riuscire a scivolare in avanti, mentre la barca corre all’impazzata, le raffiche di acqua malata e gelida sono tremende quasi quanto il rinculo sulla superficie dell’acqua.

Lasciavo al loro destino quelli sul tetto, alcuni ci seguivano con lo sguardo, ma non avevano il coraggio di farlo davvero. Si avvicinavano sempre più l’un l’altro, per tenersi al caldo e ancorati. O forse stavo andando io verso il mio destino.
Aggrappata per un attimo ai bocchettoni roventi, la sinistra ustionata di più dell’altra, non potevo cedere, e ho continuato a darmi la spinta per scivolare; vedevo di fronte a me la prima delle due tipe buttarsi giù, sul retro della barca. Si poteva fare. Ho tenuto duro stoica finché non ho raggiunto l’ultimo centimetro del tetto, da li, ho saltato, nella zona d’ombra. Al riparo dal vento e dall’acqua grossa, solo il fumo nero del motore rendeva il riparo impossibile. Ma metà del lavoro era riuscito. Le ragazze si avventuravano sulla passerella.
Io dietro a loro, cominciavo a temere di non farcela, ero completamente congelata, le palme delle mani ustionate, il peso dello zaino mi rendeva tutto difficilissimo. Ma inizio, mettendo un piede dietro l’altro e tenendomi con i polpastrelli a questa sporgenza di lamiera bagnata del tetto. Vedo la prima ragazza arrivare all’ingresso del cabinato. La seconda davanti a me bloccarsi su un tubo nero che esce dal pannello laterale (che dovrebbe essere chiuso) e che attraversa tutta la passerella sbattendo sul lato della barca. Lo scavalca, la osservo, perché dovrò fare come lei. Quando arrivo li, mi chiedo, davvero mi chiedo, ma che cazzo mi è saltato in mente di stare sul tetto! Mi promette la mia mente di prendere nota

“Mai più mettersi sul tetto di imbarcazioni a motore se si chiamano Speed Boat e si trovano da qualche parte nel sudest asiatico.”

Accanto a “Portati sempre dietro un cucchiaio per mangiarti la noce di cocco quando sei da qualche parte nel sudest asiatico”.
Alzo lo sguardo, e gli altri sfighè che sono rimasti in cima mi guardano ammirati, nei loro occhi invece io leggo la perdita di ogni speranza. Eppure una coppia del tetto, ispirata dalle nostre gesta, ci sta copiando e decide di avviarsi sul percorso che abbiamo tracciato. Arrivo al tubo, in quel momento è fermo per una fortuna incredibile, lo scavalco in fretta e con ogni fibra del mio corpo mi sento quasi salva, a pochi metri dall’ingresso. La seconda ragazza entra e la barca comincia chiaramente a rallentare. Quando raggiungo anche io l’interno, il pilota è in piedi davanti a me, e qualcuno, che io chiamerò per comodità il “comandante”, lo sta chiaramente redarguendo.

I passeggeri che si trovavano al riparo ci guardano come se non sapessero neppure che fossimo sul tetto. Mentre il comandante esce e fa cenno agli altri che ci sono rimasti di scendere da lì, porco zio.

Nessuno della truppa si era forse reso conto che stavamo per morire? Che eravamo li sopra? Che andavamo troppo veloci?

Non lo so. Aprono un congelatore da asporto, in cui nette si distinguono delle birre Angkor in lattina, ne prendo un paio e mi trovo un posto in cui buttarmi a sedere. Di solito non bevo in viaggio né di giorno. Mentre la apro arrivano da fuori in fila indiana gli sfighè che sarebbero morti, se non fosse stato per la nostra coraggiosa decisione. Sono zuppi fradici, gocciolano come me, e sono congelati. Tutti gli altri occidentali si aprono, facendo loro cenno di sedersi accanto qui e li. Ci guardano come fossimo degli immigrati clandestini. Io tremo e tremerò di freddo per tutto il giorno.
Una giovane donna saltella, bella e magra, nel suo vestino color carta da zucchero a voile, senza maniche e con una cinturina di cordame che lasca le cinge la vita. Il suo compagno la segue benevolo. Sono giovani, lei indossa delle ciabattine ed è felice come una creaturina che viaggia nella sportina della bicicletta.

Lui un po’ si vergogna di quella insensata gioia, alla luce del clima da tragedia, tra la gente che si spoglia e si riveste in panni asciutti. Uno mi fa “hai visto il mio amico?”

è l’italiano che mi aveva detto di costruire il fortino di valige sul tetto mezz’ora prima. Anche lui è sceso da li, e lì non c’è rimasto più nessuno. Ma non vede il suo amico, e la cabina non è cosi grande. “mi dispiace, non so dove sia”. Ripassa la tipa, francese com’era logico che fosse. Il suo tipo mi guarda, e nei suoi di occhi io vedo un grazioso animale da salotto che avrebbe dato la vita per vivere il viaggio a modo mio.
Ho chiaramente stampato nella mente e lo sento con tutta me stessa che quella storia sarebbe potuta essere senza dubbio l’ora della mia fine. La barca corre per altre 5 ore su questo lago senza orizzonte. È terribilmente vecchia e malandata. I finestrini sono incollati con il bostik, al meglio, e ingialliti e crepati dall’usura.

Filtrata cosi, la luce grigia della morte assume un tono di epico tramonto, caldo e benevolo, che mi rende brilla ma stranamente lucida anche alla seconda birretta.

Il caso vuole ancora che accanto a me la donna seduta sia una buddista de Roma, con cui scambio due parole. Mi parla della sua fede e di sua figlia, mi parla dell’uomo che ama. E io tracanno la mia birretta qualunque e prendo tra le dita il Buddha della collanina che indosso da un po’ di giorni.

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